miércoles, 21 de febrero de 2024

Homo no sapiens: La corretta ignoranza

  Una delle domande che mi sono posto solitamente nel corso della mia vita é: c’è la libertà nella nostra società? Da sempre mi hanno detto di sí, che è possibile fare quello che si desidera, dire quello che ci pare – dentro l’ eticamente accettabile – e non passerà nulla. Nonostante ciò, con il passare dei giorni, questa affermazione ripetuta e interiorizzata, non era poi così certa come credevo, o almeno era una degna affermazione da essere sottoposta a un discorso ragionato. 

  Personalmente, mi permetto sempre di dubitare su questioni riguardanti il tema della libertà sociale riguardo la vita in Spagna. Con il passare degli anni, crescendo, mi sono reso conto di quanto siamo radicalizzati e polarizzati rispetto a questioni riguardanti quello che accade intorno a noi. Da domande tipiche e “inoffensive” che i familiari pongono nell’età infantile, come ad esempio: Sei del Madrid o del Barcellona? A domande più serie come: Per quale Partito voterai? Sei di Destra o sei di Sinistra? Quando mi fanno le suddette domande, soprattutto la prima, quando ero piccolo, era un dilemma scegliere, così la mia scelta verteva verso il Real Madrid, non perchè mi piacesse la squadra, ma piuttosto per il colore della camicia che era più gradevole visualmente. Nell’età adulta, in realtà, il calcio diventa per me uno sport poco gradito, e dunque, la risposta diventa più chiara: non mi piace il calcio.

  Riguardo le domande sulla politica, si tocca un punto più complesso. Da giovane, possedevo ideali di sinistra che ad oggi non sono più del tutto chiari. Dalle conclusioni tratte, non posseggo una direzione sicura e questo crea difficoltà alla mia persona. Per esempio ogni quattro anni, quando vi sono le campagne elettorali, diventa estremamente difficile scegliere il partito da votare. Inizia quindi un largo e complesso processo di lettura di programmi elettorali, e analisi degli stessi, che ci portano a cercare i pro e i contro di questo o di quell’ altro Partito politico, fino a quando finalmente si arriva alla conclusione, ossia, che il Partito politico che merita il mio voto è ...

   In altre parole, non è possibile dare una risposta concreta se non so quello di cui si sta parlando. Non è possibile criticare un qualcosa o qualcuno che non si conosce semplicemente per quello che viene detto da terzi . Non vi è un detto che dice “non ti fidare di quello che senti, e di quello che vedi a metà”? Quindi, perchè la gente preferisce limitarsi ad uno slogan, ad un’ idea concepita in precedenza, o ad un colore?

  La realtà è che si è persa la capacità di riflettere; lo spirito critico è sfortunatamente superato da tempo. È facile vedere ciò che provoca rifiuto negli altri però si può prendere qualcosa di buono da quello che si rifiuta , e vedere in che modo questo ha un effetto su di noi, allontanandoci dall’ opionione altrui.

  L’ autore Antony Beevor, nel suo libro Rivoluzione e Guerra Civile 1917-1921: Russia, dice quanto segue in relazione a come i Bolscevichi preparavano il loro discorso nell’ anno 1917: 

“In un epoca in qui la massa aveva poca formazione politica, uno dei vantaggi dei bolscevichi era che i suoi oratori non tentavano di convincere il pubblico mediante argomenti, se non per la semplice ripetizione di slogan (una tendenza che, per inciso, tuttavia sembra funzionale)”.

 Non si può non essere d’ accordo, semplicemente è necessario fermarsi un secondo per ottenere la consapevolezza della “verità”; poco importa dove tu vada, poco importa quello che tu faccia, poco importa quello che tu dica... la “verità” sarà sempre tua fedele compagna di viaggio. In una conversazione sulla politica, lo sport, il cinema, ecc., poca gente si limita ad adottare una posizione critica rispetto al tema in questione. Semplicemente si limitano a ripetere una serie di slogan, idee, o dati che nella maggior parte dei casi, non si sono minimamente posti di contrastare, credendo che è socialmente accettato e non può esistere nessun’ altra alternativa possibile. Di conseguenza, appare strano ascoltare certi slogan come chi difende i terrappiattisti, oppure la tesi che la medicina omeopatica possa curare qualsiasi malattia, oppure ancora, che vaccinarsi dal covid non faccia bene perchè ci introducono chip localizzatori come se non fossimo già sufficientemente perseguitati e geolocalizzati con i nostri amati cellulari di ultimissima generazione.

  Al contempo, la rapida evoluzione tecnologica , effettuata entro il primo decennio degli anni 2000 fino ad oggi, ha dato luogo al fatto che la società si ritrovi ogni volta più anestetizzata e instupidita rispetto a tutto quello che la circonda. Seppur le reti sociali e gli ultimi modelli di cellulari ci hanno reso la vita molto più semplice, in alcuni casi hanno anche contribuito a far sì che il nostro cervello smetta di riflettere su quello che ci circonda e semplicemente si limita a generare dopamina per questo like in questa o in quella rete sociale, trasformandoci in autentici drogati tecnologici. Questa o quella questione che prima si poteva smentire attraverso la lettura, la comparazione e la critica sulle teorie di differenti autori, al giorno d’ oggi si limita a farci credere qualsiasi cosa per il semplice fatto che il nostro amato influencer , youtuber, o streamer , lo pensi, che il pensiero sia errato oppure no. La loro parola è SACRA portando i politici e i nuovi guru new-age ad approfittare di questo enorme filone di oro.

  Per questa ragione, dobbiamo alzare la testa davanti al mondo in cui viviamo . È importante essere profondamente critici e non limitarci alle informazioni “che ci piacciono”. Bisogna fuggire dalle risposte semplici e domandarci sempre il perchè delle cose. Solo in questa maniera si può annientare l’ottusità alla quale la società ci sottomette. Come afferma Arturo Pérez - Reverte in un tweet pubblicato nel 2022 : “ Unisci un malvagio con 1.000 stupidi e otterrai 1.001 malvagi. È la semplice storia dell’ Umanità”. Non potrei essere più d’ accordo.   


   Autore: Rubén Canosa Leiro.

 Traduzione dallo spagnolo all' italiano: Deborah Dente.

lunes, 19 de febrero de 2024

Homo no sapiens: la correcta ignorancia.


Una de las preguntas que me he hecho a lo largo de mi vida es: ¿Hay libertad en nuestra sociedad? Desde siempre me han dicho que sí, que tú puedes hacer lo que quieras, decir lo que quieras – dentro de lo éticamente aceptable – y no pasará nada. Sin embargo, conforme he ido creciendo, he observado como esa afirmación quizá no fuera tan cierta como yo creía, al menos era digna afirmación de ser sometida a un cuestionamiento razonado.

Personalmente, me permito siempre dudar sobre cuestiones tales como el tema de la libertad social que tenemos las personas en España. A medida que he ido creciendo y pasando por diferentes etapas de mi vida: infancia, adolescencia, juventud, adultez. He ido dándome cuenta de lo radicalizados y polarizados que estamos respecto a cuestiones de nuestro día a día. Desde preguntas típicas e “inofensivas” que podían hacerte familiares cuando eres pequeño, tales como: ¿Eres del Madrid o de Barça? Hasta preguntas más serias: ¿A qué partido político vas a votar? ¿Eres de izquierdas o de derechas?

Cuando a mí me hacían, y hacen, esas dos preguntas que acabo de señalar; respecto la primera de ellas, cuando era pequeño, me asaltaba serias dudas sobre que elegir, así que me decantaba por el Real Madrid; no porque me gustara el equipo, sino porque la equipación me resultaba más agradable visualmente. Luego, a medida que he ido creciendo, me he dado cuenta de que el fútbol no es un deporte que me atrae, con lo que mi respuesta se fue haciendo más clara: no me gusta el fútbol.

Respecto a las preguntas sobre política ya era, y es, algo más complejo. Cuando era más joven mi idea de la política comulgaba más con la izquierda. Sin embargo, a día de hoy, no lo tengo tan claro, pues las conclusiones que saco van siempre balanceándose de un lado hacia el otro. Y eso, en ciertas ocasiones, me pone en aprietos. Por ejemplo, cada cuatro años, cuando hay campaña electoral, me resulta extremadamente difícil saber a quién voy a votar. Empieza entonces un largo y complejo proceso de lectura de programas electorales y análisis de los mismos, que me llevan a buscar los pros y contras de este o aquel partido político, hasta finalmente llegar a la conclusión que el partido que merece mi voto es…

En otras palabras, no puedo dar una respuesta fácil si no sé de qué me están hablando. No puedo, tampoco, criticar algo que desconozco (o a alguien) simplemente por lo que escucho de terceros ¿no hay un refrán que dice: “no te fíes de lo que escuches y de lo que veas la mitad”? Entonces, ¿por qué la gente prefiere limitarse a seguir un eslogan, una idea preconcebida o un color? La realidad es que se ha perdido la capacidad de reflexionar, nuestro espíritu crítico hace tiempo que pasó a mejor vida. Es fácil ver lo que nos produce rechazo en lo ajeno, pero ¿podríamos sacar también algo bueno de eso que rechazamos y ver en que medida nos afecta alejándonos de la opinión ajena?

El autor Antony Beevor, en su libro Revolución y Guerra Civil 1917 – 1921: Rusia, dice lo siguiente con relación a como los bolcheviques preparaban sus discursos en el año 1917:

En una época en que las masas apenas tenían formación política, una de las ventajas de los bolcheviques era que sus oradores no intentaban convencer a la audiencia mediante argumentos, sino por la simple repetición de eslóganes (una tendencia que, dicho sea de paso, todavía parece funcionar).

(Beevor, 2022, pp. 118 – 119)

No podría estar más de acuerdo, solo es necesario pararse un segundo en nuestro día a día para darnos cuenta de que siempre se dice la “verdad”; da igual a donde vayas, da igual lo que hagas, da igual lo que digas, la “verdad” siempre será tu fiel compañera de viaje. Apenas sale una conversación (política, deporte, cine, etc.) y poca gente se limita a adoptar una postura crítica respecto al tema en cuestión. Simplemente, se limitan a repetir una serie de consignas, ideas, datos que, en la mayoría de los casos, ni siquiera se han limitado a contrastar, creyendo que eso es lo que está socialmente aceptado y no puede existir ninguna otra alternativa posible. Luego nos extrañamos cuando escuchamos ciertas consignas como las defendidas por los terraplanistas, que la medicina homeopática realmente nos curaba de cualquier dolencia o que vacunarse del covid era malo porque nos introducían chips de seguimiento (como si no estuviéramos ya suficientemente acosados y geolocalizados con nuestros queridos móviles de ultimísima generación).

Por otra banda, la rápida evolución tecnológica llevada a cabo entre la primera década de los años 2000 hasta hoy, ha dado lugar a que la sociedad cada vez se encuentre más anestesiada y estupidizada respecto a todo lo que le rodea. Aunque las redes sociales y los últimos modelos de móviles nos han hecho la vida mucho más fácil, en algunos aspectos, también han contribuido a hacer que nuestro cerebro deje de reflexionar sobre lo que nos rodea y simplemente se limite a generar dopamina por ese like en esta o aquella red social, haciéndonos auténticos drogadictos tecnológicos. Esta o aquella cuestión que antes se podía desmentir a través de la lectura, comparación y crítica de teorías de diferentes autores, a día de hoy se encuentra limitada a que lleguemos a creernos cualquier cosa por el simple hecho de que nuestro influencer, youtuber o streamer de cabecera también defiende esa forma de pensar (quizás errada o quizás no). Y como no, si ellos lo dicen, es PALABRA DE DIOS (no es de extrañar que el mundo de la política y los nuevos gurús new age aprovecharan semejante filón de oro).

Por esa razón, debemos levantar la cabeza ante el mundo que vivimos. Debemos ser profundamente críticos con todo lo que nos rodea y no limitarnos simplemente a buscar y creernos la información que “nos gusta”. Debemos huir de las respuestas fáciles y preguntarnos siempre el porqué de las cosas. Solo de esta manera lograremos huir de esa estupidización a la que nos tienen sometidos. Como bien afirmó Arturo Pérez – Reverte una vez en Twitter (actual X): “Junte a un malo con 1.000 tontos y tendrá usted 1.001 malos. Es simple historia de la humanidad”. No podría estar más de acuerdo.


martes, 9 de agosto de 2022

La Pizzica: historia, tradiciones y leyendas.

     La Pizzica es una danza popular que tiene sus orígenes en Puglia. Nació como música de acompañamiento en los ritos coreuticos que tenían como objetivo exorcizar el tarantismo, una forma de histeria que se dice que afectaba a las mujeres que trabajaban en los campos y que se pensaba que habían sido mordidas por tarántulas (arañas), escorpiones o scursuni (serpientes típicas de la zona).

    El término Taranta deriva de la ciudad de Apulia de Taranto ( debido a la presencia habitual de este animal en la zona).


Tarántula.
Escorpiones.

Serpiente scursune

   Muchos remontan la aparición del término "pizzica" a una fuente de 1797 que habla de una noche de baile ofrecida al rey Fernando IV de Borbón desde la ciudad de Taranto, donde este último había ido a realizar un encargo diplomático y quedó tan fascinado que escribió el episodio en su diario secreto.

    Una leyenda cuenta que los apóstoles San Pedro y Pablo, durante su peregrinación, se detuvieron en Galatina, allí fueron hospedados por un piadoso en su propia morada, que se encontraba donde hoy se encuentra la Capilla. Para agradecerle su hospitalidad, San Pablo otorgó al hombre y a sus descendientes el poder de sanar a todos los que fueran mordidos por las arañas venenosas, definidas en dialecto como " tarante". Simplemente bebiendo el agua del pozo situado en el interior de la casa y haciendo la señal de la cruz sobre la herida se podía derrotar este mal.

    Precisamente, es a la figura de San Pablo  a quien está vinculada la fiesta que se celebra el 29 de junio. En la antigüedad, en esta fecha, se realizaba un ritual de exorcismo que involucraba a todos los que estaban en un fuerte estado delirante (mujeres jóvenes solteras en su mayoría) después de la mordedura de la tarántula.

    El rito comenzaba en la casa de las desafortunadas que generalmente estaban rodeadas de músicos con tamburello (un tipo de pandereta), violines y otros instrumentos típicos de la época. Al ritmo acelerado de estos sonidos, las mujeres se dejaban llevar por un baile frenético y convulso (caracterizado por verdaderos espasmos). La etapa final del exorcismo tenía lugar en la Capilla de San Pablo, donde se invocaba con canciones y oraciones la gracia del santo. Se dice que solo después de beber el agua milagrosa y vomitar en el pozo, la gracia podía considerarse obtenida.

Tamburello

    Otro aspecto de la pizzica es el cortejo. Hoy, cuando vemos a una pareja bailando la pizzica de cortejo, vemos al hombre arrodillado a los pies de la mujer, esperando su elección amorosa (con entrega del pañuelo). Muchos no aceptan esta figura , creyendo que en el pasado era muy improbable que un hombre de aquellos tiempos en los que la dignidad y el orgullo masculino tenían un cierto peso, se pusiera a los pies de una mujer. Así mismo, en el cortejo antiguo, la mirada no estaba permitida (mientras que ahora sí), esto se debía al hecho de  que mirar durante mucho tiempo a una persona a los ojos en aquellos tiempos no entraba en los cánones de compostura y seriedad. 

    Dentro de la pizzica  es importante destacar la importancia del pañuelo, este tenía la función de la invitación al baile; además del pañuelo, se podía también utilizar otras prendas como el chal, que se llevaba sobre los hombros. En la pizca tradicional el pañuelo podía ser lanzado a la compañera o al compañero, apoyado sobre el hombro , o puesto alrededor del cuello, pues en una época en la que incluso el solo contacto de la mano se consideraba inconveniente, el pañuelo actuaba como intermediario, cargando con significados eróticos o relacionales. Hoy el pañuelo ha sido sustituido por el foulard en la danza, que da un significado también al verso del movimiento de este último, en sentido horario para aceptar el cortejo, y en sentido antihorario para rechazarlo.

Bailarines de Pizzica.

    Actualmente, en el último sábado de agosto, se celebra la "Noche de la Taranta" ( Concierto internacional donde actúan los más grandes músicos y cantantes folclóricos). Las críticas hechas a este evento son muchas, ya que se cree que la naturaleza internacional de este evento ha alterado el sentido real de la tradición de esta danza popular.









Bibliografía

Azzarito, K. (2016). Guarda come balla, Transformazioni e innovazioni della pizzica - pizzica. Progedit.

Recursos web

Staff corte del Salento. (2016). "Galatina: la capella di San Paolo e il mito del tarantismo". Corte del Salento. https://www.cortedelsalento.net/salento-dintorni/galatina-la-cappella-di-san-paolo-e-il-mito-del-tarantismo 




Autora: Deborah Dente. 

jueves, 27 de enero de 2022

El mundo a través de un cristal: una historia sobre las gafas.

 

En el mundo en el que vivimos, cada vez más gente necesita utilizar estas ayudas ópticas que todos conocemos como gafas; nos ayudan en nuestra vida cotidiana a leer o protegernos de los rayos del sol pero ¿alguna vez os habéis preguntado cómo eran las primeras lentes hasta que se inventaron las gafas en sí? Conozcamos su historia.

                                                 

Recuperado de https://sp.depositphotos.com/stock-photos/gafas.html

 

Esta historia comienza hacia el año 5000, es en esta época cuando se comienza a tener información de que nuestros antepasados usaban los pequeños guijarros redondeados que encontraban a las orillas de los ríos, además de piedras semi-preciosas transparentes, para poder observar los objetos aumentados.

 

Posteriormente, en el año 1500 a.C., los egipcios fabricaban vidrio mezclando polvo de cuarzo y natrón, que era una sal mineral que usaban tanto para fabricar vidrio como para preservar sus momias, debido a que esta sal inhibía el crecimiento de bacterias en la carne del cadáver, era un desinfectante microbiano y eliminaba las células grasas del cuerpo. Aunque usaban estos vidrios como ayudas ópticas, no se tiene evidencia de que fabricaran lentes.

 

Así mismo, en el año 609 a.C.  se sabe que algunas personas empezaban a usar como lupas los guijarros, como muestran algunos hallazgos encontrados en las ruinas de la ciudad mesopotámica de Nínive, la cual era el lugar de culto de la diosa Ishtar que se pensaba que tenía poderes curativos.

 

                       

Antigua Nínive. Recuperada de  https://www.ancient-origins.es/noticias-lugares-antiguos-asia/auge-decadencia-n%C3%ADnive-la-joya-la-corona-antiguo-imperio-asirio-004902

        Más tarde, ya en el año 54 d.C., el escritor y militar romano Cayo Plinio Secundo, conocido como Plinio el Viejo, grabó al emperador Nerón utilizando dos lentes que estaban formadas por berilo, que era un mineral y una piedra preciosa, o esmeralda y estaban unidas por un anillo.


Plinio El Viejo. Recuperada de https://www.biografiasyvidas.com/biografia/p/plinio_elviejo.htm


Busto del emperador Nerón. Recuperada de https://historia.nationalgeographic.com.es/a/neron-reino-terror_8499

 

    Casi 100 años después, en el 150 d.C. el astrónomo griego Claudio Ptolomeo describió el paso de los rayos de la luz a través de las lentes. Sin embargo, en el año 1000 d.C., el físico árabe Alhacén encontró diversos problemas en la descripción de Ptolomeo sobre la óptica y describió cómo se veían aumentados los objetos a través del segmento de una esfera.



              Claudio Ptolomeo. Recuperado de  https://www.astromia.com/biografias/tolomeo.htm

                                                 


         Alhacén. Recuperado de https://historyofyesterday.com/alhazen-the-father-of-modern-optics-d81439ced26a

     En el siglo XI, las piedras que se venían usando como ayudas ópticas, iban siendo cada vez  más finas y se colocaban delante de los ojos a modo de gafa, aunque no fue hasta finales de ese siglo cuando se le añade a la piedra un mango y un marco áspero para poder sujetarla.

    Finalmente, en el siglo XIII ocurrieron varios sucesos. En el año 1268 el fraile franciscano de Oxford, Roger Bacon, conocido como “el padre de la óptica occidental” consiguió grabar el aumento de las letras a través de un vidrio u otras sustancias transparentes.

     Dos años después, en el año 1270,  Marco Polo, durante sus viajes, observa a ancianos chinos utilizar lentes convexas para leer la letra pequeña. No fue hasta el año 1285 que se fabrican las primeras gafas. Se cree que fueron fabricadas en Italia mediante dos vidrios unidos, por el físico florentino Salvino d’Armato, ya que se puede ver escrito en su lápida en Florencia: “Aquí descansa Salvino d’Armato, el inventor de las gafas.”

 

Salvino d’Armato usando las primeras gafas: http://www.glasseshistory.com/glasses-inventor/salvino-d-armate/

 

 

Epitafio en la sepultura de Salvino d’Armato en la iglesia de Santa María la mayor de Florencia. En este podemos leer lo siguiente: “Aquí yace Salvino D’ Armato, de los Armati de Florencia. Inventor de los anteojos. Que Dios perdone sus pecados. Año 1317”. Recuperado de https://www.europeana.eu/es/item/02302/urn_imss_image_032177

 

 

Recursos web:

·         http://ajcmi.umsha.ac.ir/Article/ajcmi-2145 (consultado: 27/01/2022)

·         https://scielo.isciii.es/scielo.php?pid=S0365-66912002001200010&script=sci_arttext&tlng=pt (consultado: 27/01/2022)

·         https://www.muyhistoria.es/curiosidades/preguntas-respuestas/conocian-los-egipcios-el-vidrio-171398069299 (consultado: 27/01/2022)

·         https://www.greelane.com/es/humanidades/historia-y-cultura/what-is-natron-119865/ (consultado: 27/01/2022)

·         https://www.lugaresconhistoria.com/ninive-asirios-irak (consultado: 27/01/2022)

·         https://scielo.isciii.es/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0365-66912004000600010 (consultado: 27/01/2022)

·         https://journals.sagepub.com/doi/pdf/10.1177/003591577106401024 (consultado: 27/01/2022)



Autor/a: Andrea Magadán Fernández (Magui)

martes, 19 de octubre de 2021

Las sagradas Kumari: las niñas diosas de Nepal

   
    Hay en Nepal una tradición religiosa milenaria que trasciende a otras tradiciones religiosas del mundo. Por lo general un dios, o la divinidad de éste, puede estar representado por un objeto, un ídolo, un cántico, una forma natural (roca, montaña, río...), etc. Pero ¿Ser esa deidad una niña?
 Estas sagradas niñas son conocidas como las kumari, que por su traducción del idioma sánscrito significa "niña virgen". Niñas seleccionadas desde que son muy pequeñitas para convertirse en la reencarnación de la diosa hindú y madre del universo Taleju (conocida como Durga en la India). Conozcamos su historia.

Actual kumari de Katmandu fotografiada durante la festividad del Indra Jatra. Imagen recuperada de: https://mytrip2nepal.wordpress.com/category/uncategorized/

Las leyendas que dieron origen a una tradición.

    Muchas tradiciones existentes a lo largo y ancho del mundo tienen una base legendaria. En Nepal la tradición de las kumari es una de ellas,  y  lleva tras de sí una serie de tres  relatos legendarios que pretenden dar una explicación a su origen. 

    La primera leyenda relativa al origen de las diosas vivientes tiene fecha desconocida, al contrario que las dos que le suceden. Sin embargo, veremos que realmente se trata del mismo mito pero contado de diferente manera. Este cuenta lo siguiente:

    Un rey jugaba al dice (juego de dados) con la diosa Taleju, quien cada noche tenía la costumbre de acudir al palacio del rey a jugar al anteriormente mencionado juego. Una noche, la reina los vio jugando, y la diosa se enfadó tanto que le dijo al rey que nunca jamás volvería al palacio. Sin embargo, si quería que su reino siguiera gozando de su protección debía encontrar una niña del clan Sakay de Newaru en la cual se reencarnaría. Tras esto, el rey instauró la tradición de adorar a una niña como una diosa viviente. 

    El segundo relato legendario sobre la tradición de las kumari se cree que pudo tener su origen en el siglo XVI. En el se cuenta que el rey Trailokya Maya estaba jugando al dice con la diosa Taleju. Mientras jugaban, discutían sobre el bienestar del país. Una noche el rey se vio envuelto en una atracción sexual desesperada hacia la diosa, lo que llevó a forzarla a tener relaciones sexuales con él. Taleju, furiosa por lo sucedido, decidió desaparecer y no volver a visitar al rey en su palacio. Tras lo sucedido, el rey imploró y rezó a la diosa para que regresara; ella, en respuesta a las plegarias del rey, le dijo que se revelaría en el cuerpo de una niña virgen. 

    El tercer y ultima relato legendario conocido data del reinado del rey Pratap Mall. Se cuenta que él solía jugar al dice en secreto con la diosa Taleju. Una noche, en el transcurso de una de sus partidas, empezó a surgir en el rey fuertes pensamientos sexuales hacia la diosa. Esta, al darse cuenta de tamaña afrenta desapareció. Después de lo sucedido, cuando el rey se encontraba durmiendo, la misma Taleju se le apareció en sueños, diciéndole que ella misma se establecería en una pequeña niña budista a la cual él adoraría.

Representación de la diosa hindú Durga (nombre dado a Taleju en la India). Imagen recuperada de: https://nombresdediosas.com/durga/


    El proceso de selección de una kumari

    El proceso para la selección de una kumari tiene lugar en el palacio de las kumari, donde todas aquellas niñas de entre 2/3 y 5 años son seleccionadas cuidadosamente esperando a que en ellas se reflejen una serie de características indispensables:

  1. Poseer una salud perfecta. Estando completamente libre de cualquier enfermedad o dolencia. 
  2. Poseer una piel impecable.
  3. Poseer un pelo liso y negro recogido hacia el lado derecho.
  4. Poseer ojos negros y expresivos. 
  5. Poseer una sonora, clara y cristalina voz.
  6. Poseer unos brazos largos y gráciles.
  7. Poseer unas manos y unos pies blandos.
  8. No poseer un mal olor corporal.
  9. No haber perdido nada de sangre.
10. Poseer un cuerpo virginal inmaculado (libre de manchas, cicatrices, etc).
11. Poseer el cuerpo de un árbol Banyan.
12. Poseer las cejas como las de una vaca.
13. Poseer unos dientes blancos y exentos de agujeros.
14. Poseer una gran sonrisa.
15. Poseer  unos muslos como los de un ciervo.
16. Poseer un cuello como una caracola.
17. Poseer una lengua pequeña y húmeda. 
18. Poseer veinte dientes intactos.
19. Poseer órganos sexuales pequeños. 
20. No haber menstruado nunca.

    Tras ver que las niñas cumplen con los requisitos para entrar dentro del proceso de selección, se procede al inicio del ritual iniciático. 

    En este ritual se introduce a la niña dentro de una estancia donde se encontrará numerosos cuerpos de animales mutilados junto a enormes charcos de sangre resultado de tal sacrificio. Allí permanecerá quieta mientras sacerdotes con máscaras demoníacas  danzan a su alrededor. Es en este momento donde la pequeña tiene que hacer acto de todo su valor y no mostrar ningún signo de miedo. Al menor indicio de temor la niña será automáticamente descalificada.
 Por el contrario, de soportar esta parte del ritual y seguidamente soportar toda una noche en la mas absoluta oscuridad junto a los animales sacrificados y completamente sola, esta aspirante pasa a convertirse en la nueva representación de Taleju y a ser adorada como la diosa en la cual se ha convertido.

El día a día de las niñas diosas.

    Ser considerada una deidad lleva consigo una serie de deberes que se han de cumplir. Por esa razón, las kumari no tienen un día a día como se espera de cualquier niña de tres a once o doce años, pues tienen que cumplir un estricto horario que les permita compaginar su educación con sus labores espirituales. 
    Del mismo modo, una kumari tampoco puede asistir a la escuela, su educación se le es dada en el propio palacio por medio de sirvientes, y una vez ya llega a la adolescencia y ser consideradas impuras (una vez les viene la primera menstruación), entonces ya pasan a ir a la escuela como los demás; a partir de ese momento son personas, no deidades. 

 Actividades a desempeñar por la kumari en un día cualquiera. Recuperado de  Ghimire, Him Lal (2018). "A Study of Living Godess Kumari: The Source of  Tourism in Nepal". The Gace: Journal of Tourism and Hospitality (vol. 9): p. 30.


    
    Entre los principales deberes de las kumari esta la recepción de autoridades de Nepal, entre los que se encuentran políticos y miembros de la familia real. Al igual que una gran cantidad de fieles que acuden a la casa de las kumari a ver a la diosa y recibir su bendición, ya que según las creencias propias de Nepal, el ver a la kumari de Katmandú y recibir su bendición es sinónimo de poder tener una buena salud y un status. No obstante, esta visita puede también una mal augurio, dependiendo de como reaccione la pequeña diosa cuando te reciba y reciba tus ofrendas. 

    Por lo general, cuando los fieles deciden tener una recepción con la kumari, al igual que se suele hacer en la presentación ante una deidad o un santo, también se le lleva toda una serie de ofrendas como símbolo de devoción, pero no estamos hablando de una deidad representada por una escultura inerte; por esa razón, como ya se ha mencionado anteriormente, la reacción que tenga la pequeña en el momento de la ofrenda determinará el porvenir que le esperará al oferente. Lo ideal es que ante el ofrecimiento de la ofrenda la pequeña diosa se quede impasiva, sin mostrar ningún tipo de emoción ni realizar ningún movimiento más allá del necesario para dar su bendición al oferente. Si por el contrario tiene la mala suerte de que la kumari decide coger ella misma la ofrenda (problemas económicos) , o peor aun, llega a mostrar ante su presencia un leve temblor (privación de libertad) o algún indicio de tristeza (enfermedad o muerte), no le esperan buenos augurios en su porvenir al pobre oferente. 

La vuelta al mundo terrenal

    Con la llegada de la primera menstruación llega también el fin de la divinidad de las kumari. Una vez la kumari tiene su primera regla, esta debe someterse al ritual del Guda, un ritual consistente en ser encerrada en una habitación en completa oscuridad y permanecer allí, sin comunicación con el exterior, durante un periodo de doce días. Una vez transcurrido ese período de tiempo la todavía kumari, acompañada y asistida por su madre, debe dirigirse al río donde se deshará el moño de la cabeza y lavará su cara eliminando las pinturas sagradas, simbolizando que la diosa Taleju ha abandonado su cuerpo. 
    
    El perder la divinidad y tener que regresar al mundo no es algo fácil. A las niñas les resulta muy duro, pues se trata de introducirse en un mundo que ellas nunca conocieron. Existen testimonios de antiguas kumari  que cuentan lo difícil que fue caminar por primera vez pues, durante su etapa de kumari no se le tenia permitido caminar ya que sus pies no debían tocar el suelo. Del mismo modo, tenían también serias dificultades para comunicarse ya que tenían prohibido hablar en el tiempo que eran kumari

Chanira, quien fue kumari en el año 2007, nos cuenta lo siguiente:

"Ser una diosa es como ser una princesa y lo tienes todo en casa. Nunca extrañé el tener que ir al exterior y disfrutaba bastante estando en casa, era parte de mi vida divina. Cuando tuve que salir de mi casa por primera vez, no sabía como caminar correctamente. Mi madre y mi padre me agarraban de las manos y me enseñaban como caminar" (Ghimire, 2018: p. 34).


Bibliografía:

Allen, Michael. The Cult of Kumari: Virgin Worship in Nepal. University Press, Katmandu. 1975.

Chiara, Letizia (2013). "The Goddess Kumari at the Supreme Court: Divine Kinship and Secularism in Nepal". Focaal: Journal of Global and Historical Anthropology (vol. 67): pp. 32 - 46.

Ghimire, Him Lal (2018). "A Study of Living Godess Kumari: The Source of  Tourism in Nepal"The Gace: Journal of Tourism and Hospitality (vol. 9): pp. 24 - 42.

Webgrafía: 






Anexos:








viernes, 5 de febrero de 2021

Hablando de Dragones

     

    El tema tratado en esta entrada no es algo como lo subido anteriormente, pero es  una curiosidad que muchas personas, interesadas en la iconografía de estos seres mitológicos, estarían interesadas en conocer. Por esa razón, considero importante comentar aquellos  libros y artículos de investigación  que me han sido de gran utilidad en la elaboración de mi trabajo de fin de máster:  La visión del dragón en China, su conexión con la serpiente y su reflejo en otras culturas.

Representación de dos dragones enfrentados. Detalle decorativo del cuarto sarcófago de la tumba de Xin Zui. Dinastía Han (c.a. 206 a.C. - 220 d.C.). Recuperado de Wu Hung. “Art in a Ritual Context: Rethinking Mawangdui.” Early China, vol.17 (1992), 137.

    Primeras menciones del dragón en China.

    El primer libro en el que se ve una referencia directa de la criatura es el conocido como I Ching o Libro de los cambios, el libro más antiguo sobre el pensamiento en la antigua China. De autoría incierta (algunos autores lo atribuyen a un tal Wang) y datado en torno al siglo XII a.C., la obra se centra en la interpretación de los hexagramas, una combinación de líneas continuas y discontinuas utilizadas para la realización de predicciones. En esta obra, el dragón se identifica con el principio generador de fuerza, asociado directamente al cielo, una característica muy definitoria - al igual que el agua -  de esta criatura. 

    Continuando nuestra andanza por las obras de la antigüedad que mencionan al dragón, tenemos datado entre los años 1000 a.C. - 600 a.C. el Libro de la poesía o Shi Jing, el libro de poemas más antiguo conocido en China. Este libro está compuesto de un total de trescientos cinco poemas de diversa índole: amorosos, costumbristas, religiosos... de autoría completamente anónima.

    Seguidamente, nos encontramos con una de las obras que más información nos ha aportado sobre la antigua China, donde aparece referenciada nuestra criatura formando parte de un programa iconográfico de carácter funerario reservado  para los carros utilizados en el transporte de los restos mortales del difunto. El Li Jing o Libro de los ritos es una recopilación de numerosos textos históricos datados entre los siglos VIII a.C. y V a.C., se cree que fueron compilados hacia el año 200 a.C. En esta obra, podemos encontrar menciones  a rituales funerarios, estructuras militares, estructuras familiares de importantes familias de China, etc.

    El último libro que trataremos en este apartado, es una de las obras que más información nos ha aportado sobre esta y otras criaturas de la mitología china (muchas de ellas relacionadas directamente con el dragón). El Shanjai Jin o Libro de los montes y los mares es una obra que ha tenido múltiples interpretaciones; desde un tratado de geografía de la antigua China, debido a la gran cantidad de información que aporta sobre los accidentes geográficos del territorio, hasta un tratado de chamanismo, por la información que aporta sobre diferentes prácticas rituales.

    Las menciones al dragón en China en los siglos XX y XXI.

    A principios del siglo XX nos encontramos las primeras publicaciones de carácter antropológico relacionado directamente con la el dragón en China. Obras como Dragon in China and Japan de Marius Willgem de Visser, escrita en el año 1913, nos ofrece una visión genérica sobre las características de esta criatura, poniendo un interés especial en aspectos como la multiformidad corpórea que esta criatura es capaz de adoptar, la relación existente entre los dragones chinos y los cursos de agua o conexiones existentes con otras criaturas en otros países, por ejemplo las Naga (diosas cobra) de la India.

    Las cuestiones que Visser mencionó en su obra, son también abordadas en títulos posteriores. Una de esas publicaciones es The Chinese Dragon de L. Newton Hayes, publicada en 1919. En esta obra Hayes introdujo también otros aspectos importantes que afectan directamente al dragón; por ejemplo, la conexión existente entre el pueblo chino y la criatura, la asociación del dragón con la fortuna, la creación de la imagen a través del descubrimientos de fósiles del periodo triásico y jurásico, etc. Además de esta obra, en el mismo año, otro autor llamado Elliot Smith publica su obra Evolution of the dragon donde a mayores de tocar los temas anteriormente mencionados y reflejados en la obra de Hayes, este autor introduce una comparación de la imagen del dragón en otras culturas del mundo como la mesopotámica, la egipcia o la sudamericana.

    Tras abordar estas dos obras, no se han encontrado otras publicaciones que hablen sobre el dragón chino hasta finales de los  años ochenta y  principios de los noventa, donde ya nos encontramos artículos como "Chinese Mithology in Context of Hidraulic Society" de Quin Wang Zhao, publicado en 1989, donde centra la atención en la asociación de la criatura con el agua y la relación de esta con los recursos hídricos de China. Posteriormente, en el año 1990, Michael Car publica su artículo "Chinese Dragon Names" donde establece una clasificación de las diferentes razas o tipos de dragones existentes.  

     Hacia final de los años noventa será cuando se establezca, con una base totalmente arqueológica, una conexión entre los dragones y las diferentes culturas existentes en China en época neolítica gracias a artículos como "Jades of the Hongshang Culture: The Dragon and Fertility Cult Worship" de  Elisabeth Childs - Jhonson.

    En el siglo XXI,  aparecen estudios más concretos sobre la criatura. Artículos como "Stone, Bones and Exotic Creatures of the Past" de Peter Dodson, publicado en el año 2000, abordan nuevamente, de forma mucho más detallada, la relación existente entre la imagen del dragón y los descubrimientos de fósiles de dinosaurios que anteriormente ya habia sido abordada por Hayes. Ese mismo año, Robert Blust  publica su artículo "The Origin of Dragons" donde vuelve a conectar la relacion del los dragones chinos y el agua, relacionandolos con el  fenómeno meteorológico del arcoiris. 

Otros títulos que vemos son: "The Dragon Ascend to the Heaven, The Dragon Dives into the Abyss: Creations of the Chinese Dragon Symbol" de Guideon Schelach, publicado en 2001, donde se centra en la imagen celestial del dragón. The Siling (Four Cardinal Animals) in Han Pictorial Art de Marienne Wong, publicado en el año 2006, donde se centra en la imagen del dragón como símbolo cardinal en el arte de las tumbas de la dinastía Han. "¿Why Pictures in Toms? Mawangdui Once More" de Eugene Wang, publicado en 2009, donde nos da un análisis iconográfico de las representaciones de los dragones encontrados en tumbas de la dinastía Han. "Apuntes sobre el totenismo chamánico en la antigua China" de Gabriel Terol (2010) donde se relaciona al dragón con diferentes criaturas que estaban relacionadas directamente con prácticas chamánicas o "Han Mural Tombs: Reactions of Correlative Cosmology Through Mural Paintings" de Natasha Vanpeli (2011) donde una vez más vemos un estudio iconográfico de la criatura en las tumbas de la dinastía Han, que vuelve a ser nuevamente tratado en el capitulo "La Pintura", escrito por Michelle C. Wang, perteneciente al libro China: pasado y presente de una gran civilización, editado por Gabriel García - Noblejas publicado en el año 2012. 

   Finalmente, debemos mencionar los dos últimos artículos que referentes a la imagen del dragón en China, que datan de los años 2017 y 2019. El primero de ellos corresponde a la anteriormente citada Elisabeth Childs - Jhonson: "Jade Dragons and Dragon Origins", donde hace una revisión de su antiguo artículo de 1990, y establece nuevas teorías sobre los dragones de jade de la cultura Hongshang. En cuanto al segundo, pertenece al también ya citado Robert Blust: "Why Dragons are bisexual"; en este artículo, Blust expone algunas teorías, apoyadas por numerosa informacion documental, donde concluye que los dragones no poseen un sexo definido.

    A partir del 2019 no se han encontrado, por mi parte, otros trabajos que hablen sobre los orígenes o traten en profundidad la iconografía de los dragones en China. Sin embargo, dejo a disposioción de todo aquel que lea esta entrada estos títulos, con la intención de que todo apasionado por los dragones pueda conocer y explorar  a estas maravillosas criaturas mitológicas tan conocidas y desconocidas al mismo tiempo a lo largo de la historia. Sobre este aspecto, Borges, en su Libro de los seres imaginarios, decía lo siguiente: "ignoramos el sentido del dragon como ignoramos el sentido del universo, pero hay algo en su imagen que concuerda con la imaginacion de los hombres, y así el dragón en distintas latitudes y edades".


BIBLIOGRAFÍA

Blust, Robert. “The Origin of Dragons”, Anthropos: International Review of Anthropology and Linguistics, vol 95 (2000), 519 – 536.

Blust, Robert. “Why Dragons are Bisexual”, Anthropos: International Review of Anthropology and Linguistics, vol 114, nº1 (2019), 169 – 180.

Borges, Jorge Luís. El libro de los seres imaginarios. Madrid: Alianza, 1998.

Carr, Michael. “Chinese Dragon Names”, Linguistic of the Tibeto – Burman Area, vol 13, nº2 (1990), 87 – 189.

Childs – Jhonson, Elisabeth. “Jades of the Hongshan Culture: the dragon and fertility cult worship”, Arts Asiatiques, vol. 46 (1991), 82 – 95.

Childs-Johnson, Elizabeth. “Jade Dragons and Dragon Origins”, Great Settlement Shang: History, Religion and Art (2017), 9 – 19.

De Visser, M.W. Dragon in China and Japan. Liechtenstein: Saeding Reprint, 1969.

Dodson, Peter. “Stones, Bones, and Exotic Creatures of the Past” en Mayor, Adrienne. The First Fossil Hunters: paleontólogy in greek and roman times, New Jersey: Princeton University Press, 2000.

Hayes, L. Newton. The Chinese Dragon. Italy: 90 – year anniversary edition, 2012.

Hung, Wu. “Art in a Ritual Context: Rethinking Mawangdui.” Early China, vol.17 (1992), 137.

Lauer, Miko. I Ching. Barcelona: Barral Editores, 1971.

López Saco, Julio. Lijing: tratado de los ritos, vol. I (libros I - IV). Clásicos confucianos chinos de la antigüedad, 2005.

López Saco, Julio. Lijing: tratado de los ritos, vol. III (libros XIX – XXVIII). Clásicos confucianos chinos de la antigüedad, 2005.

Ning,Yao & García – Noblejas, Gabriel. Libro de los montes y los mares (Shanhai Jing): Cosmografía y Mitología de la China Antigua. Madrid: Miraguano ediciones, 2000.

Quian, Wu. Análisis contrastivo de las traducciones al español del Shi Jing. Barcelona: Universidad autónoma de Barcelona, 2019.

Schelach, Guideon." The Dragon Ascend to the Heaven, The Dragon Dives into the Abyss: Creations of the Chinese Dragon Symbol", Oriental Art, vol. XLVII, nº3 (2001), 29 – 40.

Smith, Elliot. Evolution of the Dragon. Manchester: The University Press, 1919.

Terol, Gabriel. “Apuntes al totemismo chamánico en la antigua China”, A Parte Rei, nº 67 (2010).

Vanpeli, Natasha. “Han Murals Tombs: Reactions of Correlative Cosmology Through Mural Paintings”, Asian and African Studies, vol. XV, nº1 (2011), 19 – 48. 

Wang, Eugene. “¿Why Pictures in Tombs? Mawangdui Once More”, Orientations, (2009): 27 – 34.

Wang, Michelle C. “La pintura” en García - Noblejas, Gabriel. China, pasado y presente de una gran civilización, Madrid: Alianza Editorial, 2012: 521 - 588.

Wong, Pui Ying Marianne. The Siling (Four Cardinal Animals) in Han Pictorial Art. University of London, 2006.

Zhao, Quinwang. “Chinese Mythology in the Context of Hydraulic Society”, Asian Folk Studies, vol 48, nº2 (1989), 231-246.


domingo, 31 de mayo de 2020

Onna – Bugueisha: las samurai olvidadas.


    Si hacemos un ejercicio de visión hacia el pasado y miramos al Japón del período medieval, lo que captará nuestra atención al momento serán ver a los famosos samurai, valerosos guerreros al mando de un daimio (aristócrata) que luchaban ferozmente por conseguir honor y gloria, y que de ser arrebatados ellos mismos se quitarían la vida en un suicidio ritual (seppuku).
  Pero ¿Qué hay de las mujeres? ¿Había mujeres samurai? Claro que  había, eran conocidas como Onna-Bugueisha, valientes mujeres decididas a matar si su honor les era arrebatado y cuya historia fue desprestigiada por los occidentales durante la restauración Meiji (1866 - 1870), haciendo que su historia cayera en el olvido.

Onna - Bugueisha armada con katana y tanto. Recuperada de: https://www.pinterest.es/pin/100768110390688586/

¿Quiénes eran las Onna - Bugueisha?

    Las Onna - Bugueisha eran mujeres e hijas de una familia de samuráis (conocidos como bushi). Estas guerreras adquirieron fama en la época dorada de los samuráis durante el periodo Kamakura (ss. XII – XIV) y continuaron hasta la desaparición de la clase samurai en el siglo XIX, donde estas guerreras tomarían parte en algunas batallas. Sin embargo, es importante señalar que no se trataba de mujeres libres, eran mujeres de clase guerrera y estaban entrenadas para el combate pero no eran mujeres libres; no debemos olvidar que la sociedad del Japón medieval, al igual que la sociedad china o europea de aquel tiempo, era una sociedad profundamente machista, donde la mujer estaba relegada a un segundo plano, cuidando la casa y atendiendo las necesidades del marido y los hijos (llegaban a aprender a escribir poemas o tocar instrumentos musicales con la finalidad de entretenerlos). Podríamos decir que, literalmente, las desactivaban como personas una vez contraían matrimonio.

    La diferencia entre estas mujeres y  el resto, se encuentra en que las Onna - busha se entrenaban desde niñas para poder servir como última línea de defensa en caso de ataque cuando sus maridos no estaban en casa. Estas mujeres eran verdaderas maestras de las artes marciales y especialistas en el manejo de numerosas armas como el arco japonés, la naginata, el wakizashi, la katana, el tanto o el kaiken.
   En cuanto a esta última arma, era tradición entre las madres y esposas de samuráis que se las regalaran a sus hijas, ya que estas mujeres, al igual que los hombres, estaban entrenadas de tal manera que se suicidarían con dichas dagas en el caso de que su honor fuera mancillado: 

''Cuando las jóvenes llegaban a la pubertad, se las dotaba de puñales kaiken (puñales de bolsillo), con los cuales podían amenazar el pecho de sus asaltantes, o si se presentaba el caso, volverlo contra su propio seno. (…) Cuando una virginia japonesa veía su castidad en peligro, no recurría al puñal paterno, sino a la propia arma, siempre reposada sobre su seno'' (Calvo García, 2016, 45).


El equipamiento para el combate.

La armadura:

   En lo que se refiere a la armadura utilizada por estas guerreras debemos señalar que fue evolucionando paulatinamente con el paso del tiempo. En un principio, las guerreras vestían con un yoroi (armadura) al igual que los hombres, con la diferencia que en la parte inferior se dejaba ver el hakama (pantalón de pliegues) para reforzar la idea que ese guerrero era una mujer. Algunas de estas armaduras también podían dejar un brazo sin protección para tener más facilidad de movimiento en el momento de usar el arco.

Representación de la armadura de una Onna - Bugueisha. Recuperado de: https://www.pinterest.at/pin/259379259767710227/

    Posteriormente entre los siglos XIV y XVII la forma en la que se desarrollaban las batallas era completamente distinta, ya no solo se trataba de arcos y flechas, también se añadían las armas de fuego a las batallas, lo que hizo que las armaduras sufrieran transformaciones para así ofrecer mayor protección. Es de esta manera que el yoroi fue mejorado con paneles más fuertes, cascos que se adaptaban mejor a la cabeza de las guerreras y máscaras. Así mismo el pelo lo solían recoger con una cinta blanca para evitar que les limitara la visión durante la batalla.

La naginata

    La naginata fue un arma que, junto con el arco, fue la más utilizada por estas guerreras. Esta arma, que  podríamos describir como una mezcla entre una lanza y un sable japonés, posee una hoja ligeramente curvada (similar a las alabradas chinas, pero más estilizadas) y  muy afilada, que permitía la realización de cortes limpios cuando era utilizada en batalla. La naginata utilizada por las Onna - bugueisha poseía una hoja ligeramente más corta, era más ligera y estaba perfectamente equilibrada en comparación con las utilizadas por los samurai a caballo, quienes usaban un modelo más pesado,  llamado  shobuzukuri naginata.
   El uso de la naginata en batalla les daba a estas guerreras una notable ventaja contra adversarios masculinos, permitiendo, al mismo tiempo, guardar una mayor distancia de seguridad.

Exhibición combate con naginata.
 Recuperado de: https://www.pinterest.es/pin/458804280789246722/

El arco

    El arco japones (Yumi) dista de otros arcos usados por otras civilizaciones en pequeños detalles que hacen de este un arma muy característica. Lo primero que llama la atención es su tamaño, es un arco que fácilmente llega a los dos metros de alto, lo que lo dotaba de una potencia increíble. Los materiales con los que se solían construir eran madera o bambú y para la cuerda se usaba cáñamo.
Esta arma era tan popular entre los guerreros samurai como podía ser la katana o la naginata en el caso de las guerreras samurai, incluso era más utilizado sobre todo por la caballería, aunque también podía ser utilizado por guerreros a pie.

Arco japonés (Yumi).
Recuperado de: https://www.pinterest.es/pantalones12/soulfire-images/


Onna - Bugueisha legendarias

Tomoe Gozen

Representación de Tomoe Gozen a caballo. Recuperado de: https://cienporcienhistoria.wordpress.com/2015/02/20/tomoe-gozen-la-mujer-guerrera/

    Se cree que Tomoe nació en una familia de samuráis en torno al año 1157, y como otras guerreras fue formándose en el manejo de diversas armas como la katana o el tanto. Posteriormente se cree que se casó con un samurai llamado Minamoto Yoshinaka y combatió a su lado en las guerras Gempei, ocurridas entre los años 1180 y 1185 que enfrento a los clanes Taira y Minamoto, donde este perdió la vida.  Sobre su fallecimiento no se sabe nada con seguridad, se cree que murió en combate junto con su marido, aunque en el Heike Monogatari (el cantar de Heike) se dice que fue una de las superviviente.

    La historia de Tomoe Gozen se mueve un poco entre lo legendario y lo histórico, ya que la vida de esta samurai está repleta de numerosas versiones y la descripción de Tomoe la conocemos solamente por medio de un documento histórico, el Heike Monogatari, donde se describe a Tomoe de la siguiente manera:

“Tomoe tenía el pelo largo y negro y una tez clara, y su rostro era encantador; además era una jinete intrépida, a quien ni el caballo más feroz ni el terreno más áspero podía consternar, y tan hábil en el manejó la espada que ella era un rival para mil guerreros, y estaba en condiciones de encontrarse con cualquier dios o demonio. Muchas veces ella había salido al campo, y ganó un renombre incomparable en encuentros con los capitanes más valientes.” (Turnbull, 2010, 34).

    Si por algo podemos destacar a esta guerrera es por no cumplir con los cánones de la mujer japonesa que debe obedecer a su marido. Según cuenta el Heike Monogatari, esta fue a la batalla persiguiendo a Minamoto, y como se puede ver en la descripción anterior era también una mujer que gozaba de cierto poder y prestigio. Esa contradicción a la obediencia la vemos en otro pasaje del Heike Monogatari:

“…Pero ahora ellos fueron reducidos a solo 5 sobrevivientes, y dentro de ellos Tomoe aún mantenía su lugar. Llamándola Kiso dijo “como eres una mujer, sería mejor que ahora escaparas. Estoy resuelto a morir, o por la mano de mi enemigo o por la mía, ¿Yoshinaka estaría muy avergonzado de que en su última pelea muriera junto a una mujer?”. Incluso frente a estas fuertes palabras Tomoe sin embargo se decidió a no abandonarlo, y aun sintiéndose lista para el combate le responde, “ah buscare un valiente guerrero para retar, así Kiso podrá ver cuán buena muerte puedo lograr” se movió a un lado con su caballo y espero. De inmediato Onda no Hachiro Moroshige de Musashi, un fuerte y valiente samurái, vino cabalgando con 30 seguidores, y Tomoe, inmediatamente cargando contra ellos, se lanzó contra Onda y agarrándose de él, lo saco de su caballo, lo presiono calmamente contra el pomo de su montura y lo decapito. Luego se quitó la armadura y huyo a las provincias del Este” (Castillo Morales, 2017, 32) 

Nanako Takeko.

Nanako Takeko armada con una katana. Recuperado de: https://losojosdehipatia.com.es/cultura/historia/nakano-takeko-la-ultima-guerrera-de-japon/

    Nanako Takeko está considerada como la ultima guerrera samurai de Japón, y su historia es bastante reciente, pues solo debemos remontarnos dos siglos atrás y situarnos en la segunda mitad del siglo XIX.
Nanako nació en el año 1847 en la ciudad de Edo (actual Tokio), y como muchas mujeres que pertenecían a la clase samurai, ella también fue instruida en artes marciales desde niña, volviéndose una verdadera maestra en el manejo de la naginata, conocimientos que también traspasó a otras mujeres de la zona. Al morir su padre, Nanako sería adoptada por su sensei (maestro), con el cual viviría hasta el fin de sus días.

    Sobre Nanako debemos señalar, al igual que Tomoe, a la que admiraba profundamente desde niña. Era una samurai que también se desligaba por completo de los cánones de la sumisión femenina ante una figura masculina. Esto se observa en las numerosas batallas de las que formó parte, donde ella misma comandaba un ejercito independiente de mujeres durante las Guerras Boshin (conflicto bélico ocurrido entre 1868 y 1869 que enfrentó al clan Tokugawa contra los Meiji) donde murió en combate en la batalla de Aizu a causa de una herida de bala en el pecho. Fue enterrada en el templo de Hokaiji, donde cada año se le rinde culto.

Monumento a Nanako Takeko en el templo Hokaiji. Recuperado de: http://www.la-pierre-et-le-sabre-iaido18.fr/samourai.html


 Bibliografía:

Calvo García, Patricia. Cultura y feminidad en Japón. Una perpectiva de género a través de las obras de Yasunari Kawabata. Castellón de la Plana: Universitat Jaume I, 2016.

Castillo Morales, Jose Luis. Onna-Bugeisha: La mujer guerrera japonesa del siglo XII y el quebrantamiento del discurso de la debilidad femenina. Santiago de Chile: Universidad de Santiago de Chile, 2017.

Díez Galindo, David. "Las temidas guerreras samuráis: las denominadas onna bugeisha". En  IX Congreso Virtual sobre la Historia de las Mujeres, 137 - 143. Jaen: Archivo Diocesano de Jaen, 2017.

Turnbull, Stephen. Samurai Women 1184 - 1877. Great Britain: Osprey Publishing, 2010. 

Recursos Web:







https://www.pinterest.es (consultado: 31/05/2020)








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